Arabesco by Umberto Pasti

Arabesco by Umberto Pasti

autore:Umberto Pasti [Pasti, Umberto]
La lingua: eng
Format: epub
editore: Bompiani
pubblicato: 2024-04-09T12:17:26+00:00


Le peripezie di un tappeto ottomano e la leggenda delle sirene tessitrici

Colleziono frammenti di tappeti classici - turchi, caucasici, persiani, annodati tra il Cinque e il Settecento - perché non ho mai avuto i soldi per comperarli interi. Ma non solo: noi del frammento siamo una società segreta. Il sentimento che ci infiamma è meno romantico di quello che suscita la mia parte di kouros o una scheggia di bassorilievo egizio, cioè il piacere di completarli e risanarli con l’immaginazione, facendoli coincidere col nostro ideale (intatte, le stesse sculture ci lascerebbero forse più freddi). Qui non si tratta di suggestione. Ogni bel tappeto intero è già un frammento, ogni frammento è un tappeto infinito. E come infinita è ogni parte dell’infinito, così ogni pezzo di tappeto, a osservarlo, ci impone di ampliare il suo disegno a perdita d’occhio. Non è un semplice invito, è un fenomeno inevitabile. Sono i suoi stessi limiti a renderlo illimitato. Nel mondo visibile succede solo con i campi in fiore e le piastrelle turche. Ogni spiga di avena sterile, ogni tulipano color ceralacca, coincidono con la distesa beata dove tutti agogniamo di perderci.

È una questione di ritmo misteriosa. Una questione di… duende. L’arabesco ti accoglie con un invito gentile, e subito ti cattura e ti fa percorrere le sue volute a capofitto come montagne russe; non fai in tempo a tirare il fiato che già ti si spalanca sotto il baratro successivo, ti inabissi a rotta di collo e ne riemergi, e così via, in una vertigine di discese e risalite, curve e controcurve, ti abbandoni col cuore in gola ma fiducioso. Non ci sei più, coincidi con l’energia che ti trasporta, sei un fiume, sei vento, sei il prato dove stai correndo, il precipizio della corsa. Con l’arte occidentale non accade mai, neanche coi meravigliosi arazzi millefiori, che ti lasciano fuori, fermo al tuo posto di spettatore, e laddove ti concedono di penetrare tra le loro foglie, di volare tra le loro corolle, è travestito da ape o da mosca.

“Questo è un problema tuo, hombre. Io entro dove mi pare.” Scompare in una cassettiera, rientra dalla finestra chiusa, sguazza nello specchio d’acqua del porto inglese dietro Dar Baroud in una piccola incisione seicentesca di Wenceslaus Hollar, beato lui - potesse annegare.

Uno dei miei frammenti preferiti lo comperai a un garage sale a Long Island. Mi aggiravo sull’erba secca tra le pentole, le bambole scotennate e le sedie a tre gambe che costituiscono l’attrattiva di questo tipo di smerci, insieme alle memorie squinternate di attrici televisive e ai manuali di scacchi. Ero di un umore cacciatore; quando quest’acquolina mi canta in bocca, so che devo guardarmi intorno con attenzione. Fui attirato da un mucchietto di zerbini, probabilmente perché erano i più malandati tra tutta quella robaccia. Ne sollevai uno. Sul retro era foderato con un pezzo di stoffa incrostato di fango e sporcizia, non abbastanza, però, da impedirmi di riconoscere due dita di un certo disegno. Lana? Sembrava linoleum, ma a grattarlo con l’unghia tirava su il pelo e si ammorbidiva.



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